Perché è importante il gioco nella psicoterapia con i bambini.
- Alessandra Trillo
- 2 set 2022
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 8 set 2022

“Sento la voce di papà uccellino, sta morendo, e dobbiamo salvarlo. Apriamo la finestra, la bambina dice di vederlo in mezzo alla strada, lo salviamo con un retino “fantasma”. Mi dice che papà uccellino si è salvato, è fuori casa, e ci ha ringraziato per averlo salvato” (Eleonora, 4 anni)
Questo è uno stralcio di una seduta con una bambina che chiamerò Eleonora di quattro anni, arrivata in consultazione a causa di una separazione conflittuale tra i genitori. La bambina viene descritta dalla madre come buona e che gioca con tutti, “ma ogni tanto ha degli scatti di rabbia e aggressività da non riuscire a contenere”, “è diventata rabbiosa, mi tira calci e mi dice di andare via”.
Dalla seduta di psicoterapia descritta all’inizio, esattamente da quel giorno, ho potuto conoscere il mondo interno della bambina, popolato da oggetti buoni e cattivi; di emozioni, e ricco di fantasia. La possibilità di cooperare insieme nel gioco, ha permesso l’emergere di rappresentazioni che, con Eleonora, si sono trasformate in vere e proprie fantasticherie ricreate all’interno della stanza d’analisi, fatto solo di immaginazione. Il gioco della bambina sembra riflettere la realtà familiare, il papà uccellino “arriva” sempre nella stanza d’analisi morente e bisognoso di cure materne, e tutte le tematiche che sono emerse durante le sedute di terapia sembrano corrispondere alle difficoltà dei genitori ad accedere al loro ruolo parentale.
La bambina nel gioco salva il papà uccellino che si trova fuori, “per strada” da solo e senza famiglia, tocca ad Eleonora salvarlo a dargli tutte le cure di cui ha bisogno, fargli da mangiare, lavarlo e metterlo a letto. I genitori sono così presi dal loro conflitto, dalle loro emozioni distruttive che la bambina è messa in secondo piano, è una “bambina non vista”.
Attraverso il gioco il bambino riesce a dare una espressione simbolica, che con il linguaggio non riesce a comunicare, cioè il bambino proietta nei giochi tutto il suo mondo interno e mette in scena i suoi meccanismi di difesa. Un bambino in età prescolare e scolare non è in grado di comunicare verbalmente le sue problematiche e drammi.
Winnicott (1971) afferma “se il terapeuta non può giocare, significa che non è fatto per questo lavoro. Se il paziente non può giocare, bisogna far qualcosa per permettergli di avere la capacità di giocare, dopo di che lo psicoterapeuta può cominciare. Se il gioco è essenziale è perché in esso il paziente è creativo.”[1]
Il gioco e la sua relativa interpretazione dalla mia parte, ha permesso alla bambina di dare un nome al suo disagio, difficoltà, e dare una reale riflessione ai genitori sul loro ruolo e sull’importanza di mantenere coesa la famiglia.
Cari genitori, mettere da parte i vostri rancori, dispiaceri, emozioni negative che non servono. Guardatevi al di fuori e guardate i vostri figli. Loro hanno solo bisogno del vostro amore e tempo.
[1] Winnicott D.W (1971) Gioco e realtà, ed.it Armando, Roma 1995.
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